Monday, June 15, 2009

Short stories 1.0 Invidia

INVIDIA

Camminavo tutto storto, obliquamente piegato dal peso di una cartella piena di pietre. Testa bassa e sguardo fisso sull'asfalto che scorreva sotto i miei piedi. Un passo e poi un altro. Alternando la gamba sinistra a quella destra, percorrevo un rettilineo interminabile, una strada infinita tra le villette di un finto quartiere residenziale sospeso in un aurea di vuoto cosmico. Camminavo senza mai incontrare nessuno, senza mai vedere niente. Solo asfalto grigio sporco noia, che mi riempiva la mente di cupi pensieri. Ad ogni passo, pensavo, ad ogni metro, pensavo, ad ogni istante, pensavo. pensavo.
pensavo.
Pensavo che sarebbe stato bello colorare questa grigia esistenza di un rosso acceso, di un rosso fragola, di un rosso amore, di un rosso sangue. Sarebbe stato bello pulire il pavimento della mia scuola con il sangue. Pensavo e camminavo. Pulire di rosso le bianche pareti delle nostre classi. Riempire di caos il luogo più ordinato, il luogo più vuoto del mondo.
Ogni tanto in lontananza scorgevo l'ombra di esseri viventi, ma si trattava di forme di vita in via d'estinzione che, alla stesso modo in cui comparivano, in un attimo si dissolvevano. Camminavo camminavo camminavo camminavo, seguendo la linea bianca dei miei pensieri stampati sull'asfalto, camminavo.
Amavo una ragazza. Una ragazza che amava un ragazzo. Ma quel ragazzo non ero io. Quel ragazzo era l'ombra morta di qualcuno o qualcosa. Quel ragazzo era tutto ciò che io vorrei essere, tutto ciò che sarei voluto essere, tutto ciò che vorrò essere. Tutto, tranne una cosa. Quel ragazzo non ero io. Quel ragazzo era solo un'ombra morta. Un'ombra morta può parlare, può cantare, può suonare, può baciare. Un'ombra morta non può e non potrà mai pensare, non potrà mai essere, non potrà mai esistere nel mondo o avere una pienezza di senso e significato. Sarà solo un attimo nello scorrere del tempo, un misero decimo di millesimo di secondo all'interno della storia dell'universo. Non sarà mai in grado di divenire se stesso, di divenire un ente. di divenire vivente, sarà sempre un'ombra, una misera, incompiuta, insignificante ombra. Eppure lo invidiavo, eppure volevo essere come lui. Io che posso divenire, io che sono IO. Io volevo essere lui.
Io lo invidio, nonostante sia solo un'insignificante ombra. La mia anima si corrode ogni volta che vedo lei insieme a lui. Mille perché mi attraversano il cervello, mille domande senza risposta martellano la mia serenità.
Perché lui sì. Perché io no?
E così, dopo averli visti mano nella mano, all'uscita della scuola, me ne torno a casa. Come ogni giorno percorro a piedi questo lunghissimo tragitto di invidia.
Devo dimenticarmi di lei, pensare a qualcun altra. Trovare un'altra ragazza, innamorarmi di un'altra ragazza, una vera ragazza e non un'ombra. Una vera ragazza riconoscerà subito il mio valore, il mio essere speciale. Questa era la conclusione a cui giunsi al termine di quella strada, la risposta a tutti i miei perché.
Mi ci volle pochissimo per ricadere nel pozzo. Mi ci volle pochissimo per innamorarmi di nuovo.
Era solo un'ombra, un ombra come tante! Lo dicevo. Ma ora al contrario ho trovato un vero angelo salvatore, una vera fiamma che brilla come me, anzi più di me, molto più di me.
Era più piccola, molto più piccola, spaventosamente più piccola. Quattro anni di differenza. 19 anni io. 15 anni lei. Questa distanza mi avrebbe sicuramente reso la vita più facile, sarei finalmente riuscito nel mio obiettivo millenario. Finalmente sarei riuscito a conquistare il mio amore e a fondere la mia essenza alla sua.
Io, vuoto di me stesso com'ero mi feci avanti a stento nell'avventata ricerca di un briciolo di relazione. Relazione fatta di cavi sottilissimi che si spezzavano di continuo. Mi sforzavo di allacciare una comunicazione, ma la linea continuava a cadere. Lei scappava, scappava, fuggiva, correva, via via via via. Via da me. Paura? Ripudio? Sono un essere così infimo? Così schifoso marcio putrido? Forse è lei ad essere troppo, troppo infinitamente superiore a me! Eppure non può, non può assolutamente fuggire da me. Ho quattro di più, quattro fottutissimi anni di differenza, non esiste che provi disgusto per me, non è assolutamente possibile. Nella prassi quotidiana, nell'illusoria realtà di tutti i giorni una ragazza più piccola dovrebbe sbavare di fronte a un ragazzo più grande come me, dovrebbe cadere ai miei piedi, corrermi dietro come una leonessa corre dietro alle gazzelle. E invece no, invece scappa. Ma perché!?
Le chiedo: “Hai un ragazzo?” Forse ha già un ragazzo grande come me, pensavo. E invece no, non ha nessun ragazzo. Allora perché diamine fuggi? Perché scappi da me? Non riesco proprio a capire.
L'unica possibile risposta è che io sia davvero quell'essere spregevole che tutti pensano che io sia.
Un essere spregevole. SPREGEVOLE.
Ci provo, ci riprovo, mi affaccio, mi sporgo, ma niente. Lei scappa, mi scappa.
Poi un giorno, dopo mesi di sassolini lanciati nell'acqua, dopo mesi di tentativi morti prima ancora di essere nati, un giorno, la vedo. Era un giorno qualsiasi, anzi era una sera qualsiasi. La sera di una qualsiasi festa della scuola. Un mercoledì sera come ce ne sono stati a centinaia di miliardi nella storia dell'universo. Un mercoledì sera la vedo con un ragazzo.
Un ragazzo più piccolo di me. Un'altra merdosissima ombra schiacciata dal peso della propria infinita banalità. Banale, sei banale! Pensavo a quanto doveva essere banale quell'infima ombra disumana mentre la vedevo conversare col mio amato angelo rosso. Banale come il grigio noia sporco dell'asfalto. Banale come un mondo che continua a ruotare senza mai fermarsi. Banale come le villette di un quartiere residenziale. Banale, sei banale!
Eppure di colpo, di prepotenza, ad un certo momento, in un certo istante, attimo fisso immodificabile della storia dell'universo, lui la bacia. Di prepotenza, la stringe a sé, la avvicina al proprio corpo, e BUUUUM! Le loro labbra impattano l'una contro l'altra. L'esplosione di una nuova bomba atomica.
Me ne tornai a casa. Nella testa mi rimbombava un rumore stridulo di motoseghe che tagliano ossa umane. ZIIII, ossa umane tagliate, carne, muscoli vivi che si contorcono per il dolore. E poi ossa ossa ossa, sangue.
La strada era buia. Non più grigia, ma nera. Tutta nera. I lampioni si susseguivano infiniti illuminando di rosso qualche chiazza malata d'asfalto.
Il rumore si acuiva, sempre di più, aumentava di volume, fracassandomi il cervello. Premevo le mani sulle tempie nella speranza di limitare il dolore. Premevo più forte che potevo. BASTABASTABASTA!!!
Il dolore non si fermava mai.
Arrivai a casa. Non dormii tutta la notte a causa di quel maledettissimo rumore.
Perché lui sì? Perché io no?
Quando sorse il sole, capii.
Uscii di casa con un coltello nella cartella. Barcollando come un ubriaco mi diressi a scuola.
Tutti mi guardavano, per strada, all'ingresso dell'edificio, nella mia classe. Tutti mi guardavano. Sembravano chiedersi: “ma cos'ha? Cosa gli è successo?”
Guardatemi pure, guardatemi finché non capirete anche voi la distanza che ci separa.
Le ore passavano. Mi alzai dal banco e senza chiedere niente a nessuno uscii dall'aula con la mia piccola sacca sulle spalle. Tutti mi guardavano, ma a nessuno glie ne fregava un cazzo. Rimanevano saldi, fissi, immobili, morti nella loro solidissima indifferenza. Non c'è niente di peggio dell'indifferenza di chi ti circonda. Anzi, mi sbaglio. C'è qualcosa di peggio.
Scivolai tra i corridoi della scuola, senza meta alcuna. Finché non mi accorsi di essere di fronte alla sua classe, alla classe di lei, alla classe del mio angelo senza ali, il mio angelo d'amore. Rimasi fermo di fronte alla porta ad ascoltare le voci, le voci le voci voci voci voci. Parole vaghe si disperdevano nell'aria. Domande, risate, battute, applausi.
Un ragazzo chiese di andare in bagno. Uscendo dall'aula mi vide imbambolato che lo guardavo. Lo guardavo con invidia. Mi sarebbe piaciuto essere come lui. Essere un deficiente a cui non interessa nulla di nulla, nulla di tutto. Un ragazzo che ride, che canta, che suona, che scherza.
Quando scomparì dalla mia vista aprii la cerniera della mia cartella.
Estrassi un coltello. Entrai nella classe. Tutti mi guardavano, ma a nessuno glie ne fregava un cazzo di me.
Qualche passo verso di lei con il coltello in mano.
“Cosa vuoi?”
“Ti amo”
Poi con tutta la mia forza le conficcai l'arma nel petto, che come un cavatappi penetrò in profondità. Un fiotto di sangue fuoriuscì a fontanella bagnando il di lei volto. Il suo viso sporco di schizzi rossi, il mio viso sporco di schizzi neri. Le diedi un bacio abbracciandola, stringendola a me. Sangue misto a saliva colpì le mie papille gustative. Non me ne frega più un cazzo di niente. Del mondo, di me stesso. IO IO IO IO, IO NON ESISTE! Mi importa solo di adesso, di te, di te, di te. Dei tuoi occhi della tua pelle della tua schiena delle tue mani delle tue labbra, mi importa solo di te, punto.

Viva l'amore!

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