ARABESQUE
Sentivo in lontananza una musica da pianoforte di Ryuichi Sakamoto. Doveva essere la colonna sonora di qualche film di cui non ricordavo il titolo. Il mio vicino di stanza era un amante della musica classica; verso le nove di mattina accendeva la radio a tutto volume su uno di quei canali che trasmettono registrazioni del novecento, e fino all’ora di cena non si degnava mai di spegnerla. Sia ben chiaro che io amo la musica classica, però ogni tanto mi piacerebbe ascoltare qualcosa di diverso. Magari del jazz, del rock o qualcosa di elettronica. Giusto per variare. Inoltre i pezzi suonati al pianoforte mi mettono sempre una grande tristezza. Mi ricordano i tempi in cui ero libero.
Negli ultimi tre anni ho vissuto rinchiuso in una camera d’ospedale. Non ne conosco il motivo. Quando mi alzo dal letto mi sento perfettamente in forma e pieno di energia. Probabilmente soffro di qualche strana malattia contagiosa che non ha ancora mostrato i suoi effetti sul mio corpo. O almeno questo è quello che penso, dato che sia i medici che gli infermieri quando si rivolgono a me lo fanno solamente per darmi degli ordini, del tipo “alzi il braccio, signor Barbetta”, “muova la gamba sinistra, signor Barbetta”, “abbassi la testa, signor Barbetta”. Alle mie domande non rispondono mai. Ho provato almeno un milione di volte a chiedere cosa stesse succedendo e quale patologia avessi.
E’ solo un brutto sogno!
Tutto ciò che avveniva intorno a me non aveva alcun senso. Più volte ho minacciato e tentato di picchiare gli infermieri e i medici; purtroppo però hanno dotato la camera di un sistema di videosorveglianza. Se do un pugno a un medico, subito ne arrivano altri dieci che mi bloccano e mi iniettano un sedativo, così in pochi secondi sprofondo nel sonno. Oltretutto non esiste modo di suicidarsi. All’interno della stanza non ci sono oggetti contundenti, non ci sono corde per impiccarsi, non ci sono veleni e gas per soffocarsi. Anche quando servono da mangiare si limitano a fornire un piatto e delle posate di plastica, con le quali non si riesce nemmeno ad accecarsi.
E’ solo un brutto sogno!
Le pareti bianche, le lenzuola bianche, la luce bianca.
Un’irraggiungibile finestra. Troppo in alto perché io possa guardare il mondo esterno. Ma forse un mondo esterno non esiste. I quattro passi che percorrono la mia stanza sono il mio unico universo. Una volta mi portarono un libro. Sulla copertina, rigorosamente bianca, era inciso un enorme titolo di un nero accecante. Arabesque.
Ogni tanto la radio del mio vicino trasmetteva Arabesque di Debussy. Amavo Debussy. Odiavo Debussy.
Quando aprii il libro scoprii che era del tutto privo di parole. Solo pagine bianche. Avrei tanto voluto riempirlo con qualche storia, ma non mi era concesso l’uso di una matita o di una biro.
Sentivo in lontananza una musica da pianoforte di Ryuichi Sakamoto. Le note scivolavano dolcemente una dopo l’altra, formando una bellissima melodia. Quando il brano si concluse il presentatore radiofonico annunciò il brano seguente. Arabesque di Debussy.
Il mio universo crollò.
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